sabato 15 febbraio 2014

"FRIULI VITTIMA DELLA POLITICA DEL CARCIOFO: VIA VIA HA PERSO TUTTO" di Gianfranco D'Aronco


 
 
 
 
L’AUTONOMIA CHE NON C’E’

"Friuli

vittima della politica del carciofo:

via via ha perso tutto"

di

Prof. Gianfranco D'Aronco


I.

“Siede la patria mia tra il monte e ‘l mare”, scriveva cinquecento anni fa Erasmo di Valvason (oggi scriverebbe “Dorme”). La dolorosa istoria dell’autonomia friulana può essere sintetizzata in poche ma sentite parole. La iniziativa fondamentale di Tiziano Tessitori, condotta in seno all’Assemblea costituente, aveva ottenuto il suo primo riconoscimento dalla II.a Sottocommissione, che approvava la nascita della Regione Friulana, cui avrebbero potuto aggiungersi i resti di quella che fu la Venezia Giulia, ancora amministrata dagli alleati (dicembre 1946). La Regione Friulana diventava Regione Friuli e Venezia Giulia in sede di coordinamento di detta Sottocommissione, mentre la Commissione demandava alla Costituente ogni decisione per un’autonomia particolare del Friuli-Venezia Giulia (febbraio 1947). E l’Assemblea approvava detta autonomia particolare (giugno 1947). Sennonché votava poi una norma transitoria, per cui la nuova Regione sarebbe stata “provvisoriamente retta” secondo la norme previste per le Regioni normali (ottobre 1947). Passa un anno, passa un altro, il Senato, proponente Luigi Sturzo, dichiarava decaduta detta norma transitoria: poteva nascere il Friuli-Venezia Giulia con autonomia particolare (febbraio 1955). Ma, perché avvenisse il miracolo, bisognava attendere ancora sino al 1964. Così va il mondo, anzi lo Stivale.

E a casa nostra, cosa bolliva in pentola? Lasciamo perdere date e avvenimenti precisi (tutti passati davanti ai nostri occhi, e del resto già abbondantemente documentati), per affidarci in toto alla memoria. Il Friuli è rimasto esattamente vittima della politica del carciofo, che si perpetua ancora oggi. Trieste – la più italiana delle città italiane per definizione – era, com’è, molto ascoltata dai Sette Colli. Meglio, si è sempre fatta ascoltare: dalla sua dedizione all’impero degli Asburgo (1381) preferito a Venezia, all’età felice di Maria Teresa, sino al raggiungimento del Quarnaro, che “Italia chiude e i suoi termini bagna” (Dante). Ma occorreva attendere una seconda redenzione. Defunto o meglio mai costituito il Territorio Libero previsto dal trattato di pace, scomparivano anche la zona A di detto Territorio (ad amministrazione italiana) e la Zona B (ad amministrazione jugoslava). Così Trieste era tornata fra le braccia della Gran Madre (ottobre 1954). Di quella strada il centro politico della Regione non rimaneva più Udine, naturale baricentro, ma Trieste, decentrata fuori centro. Un matrimonio d’interesse tra il Friuli e la Giulia, è stato detto. Interesse per i triestini: ma per i friulani? Tacquero, abituati a servire e tacer. I friulani o meglio i partiti avevano ceduto bel bello una primogenitura. In cambio di che? “Parola dita no torna indrio”, recita un detto sulle Rive: il presidente della Regione sarebbe dovuto essere in perpetuo un friulano. Davvero? Ecco che nel 2003 subentrava un triestino doc, originario dalla Lista per Trieste, e non sarebbe stato il solo. Ben gli sta ai furlani.

Guardiamo ora come si è concretata la predetta politica del carciofo, mercé la quale, tolte le foglie una dopo l’altra, non rimane che il gambo. Questo il lungo travaglio della Regione, data a mezzadria ai politici che l’avevano in appalto. Ci fu raccontato per gradi:

  1. La Regione Friulana sarebbe nata provvisoriamente con autonomia normale (Trieste era di là da venire);
  2. Trieste (ritornata a noi) avrebbe dovuto avere una collocazione particolare in seno alla Regione, con Udine capoluogo;
  3. la Regione avrebbe avuto come capoluogo Trieste, però con Province autonome, tipo Trento e Bolzano;
  4. niente Province autonome, ché non aveva importanza essere capoluogo: la Regione avrebbe attuato il decentramento sugli enti locali, cioè Province e Comuni (tale l’imperativo della Costituzione e dello Statuto);
  5. decentrare sugli enti locali risultava praticamente impossibile.

Il sistema della sottrazione con destrezza continua. Ora attendiamo che vengano cancellate le Province (dicono per risparmiare): così Udine, Gorizia e Pordenone decadranno a sedi periferiche di uffici della Regione, mentre Trieste (questo è sicuro) diverrà un doppio concentrato di potere. E di questo passo il Friuli, se non si sveglierà, diventerà una pura denominazione geografica. “Questo di tanta speme oggi mi resta”, direbbe Ugo Foscolo.

In cambio di tanta umiliazione inferta a dosi omeopatiche, qual è stato il ricavo? Basta sfogliare i giornali, limitandoci alle ultime settimane. Ecco qualche titolo. Spariranno le Province entro il 2018, Rivolta contro la riforma delle Province, Addio alle Province, Grave la cancellazione delle Province, Le Province non ci saranno più, Salveremo le Province, Senza Province l’identità in pericolo. E via di questo passo. Ma per questa riforma occorre una legge costituzionale, con doppia lettura alle Camere. C’è da notare per altro che le Regioni a statuto particolare non sono affatto tenute ad attuare la prevista sparizione. Ma ecco che, al primo annuncio della riforma che parlava solo di Province piccole da sopprimere o da accorpare, l’allora presidente della Regione autonoma, che non crede nell’autonomismo, si affrettò l’indomani stesso a plaudire, aggiungendo che magari si potevano sopprimere tutte. Anche l’attuale presidente (che non è provinciale essendo oriunda romana) pregusta l’ora della sparizione.

Altro argomento. La lingua friulana, minoritaria nell’intero Stato e maggioritaria nella Regione, costituisce una delle realtà fondanti dell’autonomia particolare. Viene valorizzata o almeno difesa, cominciando dalle scuole? Ancora i giornali: Dimezzati i fondi destinati alla madrelingua, Prima le promesse e poi i tagli, Un milione 165 mila al teatro “Verdi” di Trieste, Pochi soldi al friulano: 875 mila, All’agenzia per la lingua friulana 400 mila da uno 300 mila, Praticamente dimezzato il contributo alla Filologica. E il friulano nelle scuole, a norma di legge? “Un’ora sola ti vorrei” (come dice la vecchia canzone) alla settimana. Ma per la Regione più che autonoma la lingua materna rimane fuori dalla porta: non vale neanche che la netta maggioranza delle famiglie lo richieda. Un po’ per ridere e un po’ per non morire: il Consiglio comunale di Trieste sorella, che non c’entra, ha votato a suo tempo un ordine del giorno contro la lingua friulana.



II.

Ancora la favorita, rispetto al friulano “salt, onest, lavoradôr”. Ha detto 50 anni fa un sindaco della città adriatica che il Friuli è il suo contado. E lo si vede quotidianamente sui giornali. Sono troppi gli ospedali per la Regione. Come che sia, è previsto un taglio di 100 milioni alla Sanità. Meglio però gli ospedali pochi ma grandi (il capoluogo della Regione bicipite ne ha due), e i malati facciano il piacere di muoversi. Quello di Gemona, pare, perderà 4 milioni, 3 Cividale. Tolmezzo, cancellato il Tribunale appena costruito, sarà ridimensionato: taglio inaugurale di 9 milioni. Dimenticavamo San Daniele. Penalizzata Gorizia, penalizzata la montagna, penalizzata la Bassa nonostante la efficienza. Piazza pulita dei piccoli ospedali, nati nei secoli dalla pietà cristiana? Inutili i doppioni: occorre accentrare al centro, dove si allungano le code dei pazienti in attesa nei corridoi, mentre le vie adiacenti sono diventate un parcheggio sempre più dilagante.

C’è la crisi, non ci sono soldi, ci avvertono. Dicevamo dei 14 milioni elargiti al teatro “Verdi” di Trieste, sostanzialmente collassato: ma che siano gli ultimi, come ha scritto questo giornale. In tanti anni non si è riuscito a far altro che aumentare debiti. Disattese invece le promesse alla Orchestra sinfonica di Udine. Ammonisce l’assessore regionale competente: l’Orchestra non è paragonabile con il “Verdi”. Fortuna per Trieste che il Friuli c’è, dice qualcun altro: porteremo il “Verdi” in periferia. Spiega la presidente della Regione: per accedere ai fondi nazionali, il teatro doveva avere i conti in ordine, così li abbiamo raddrizzati. L’Associazione teatrale friulana si è vista negare il contributo annuo di 40 mila euro.

Trieste mia, che nostalgia”. Cancellate le aziende per la edilizia residenziale, se ne farà una sola. E l’amministratore unico di Trieste sarà il meglio rimunerato, perché il patrimonio edilizio di quella Provincia (con ben sei Comuni, un primato in Italia) è il più ampio. Si va verso la razionalizzazione. Così il fondo per la montagna passa dai 6 milioni a 800 mila.

Quanto alle così chiamate grandi opere, la Regione non potrà mettere lingua se non per assentire. “Grandi opere, grandi affari”, ha scritto qualcuno. I treni ad alta velocità o ad alta capacità sono strategici, affermano quelli che li vogliono (intanto i pendolari imparano che, abbastanza spesso, un’ora di viaggio può diventare tre). Bisognerebbe quadruplicare le linee esistenti, a costo di demolire qualche casa e qualche stalla. Sono poi di grande attualità anche gli elettrodotti. Proprietaria della intera rete di trasmissione nazionale di energia elettrica (utili del primo semestre 2013: 411 milioni), la Terna ha avuto il nulla osta della Regione quanto all’elettrodotto Redipuglia-Udine, con piena soddisfazione degli industriali. Altre iniziative in vista, da cui l’allarme della stampa. Incompatibilità delle opere, leggiamo, imposte dai monopoli della energia. Si profila all’orizzonte un elettrodotto fra Okroglo (Slovenia) e Udine: deturperebbe le valli del Natisone, la cui ricchezza è tutta nel paesaggio. Allarme ingiustificato, assicurano i padrini; impatto devastante, garantiscono i residenti. C’è l’incubo dei tralicci, alti magari 60 metri; gli interramenti non piacciono ai cavalieri d’industria.

Per fortuna una buona notizia, anche se ritardata. La Corte di cassazione ha bocciato l’annoso progetto delle casse di espansione tra Dignano e Pinzano, che avrebbero devastato cinque Comuni e compromesso il Tagliamento, alla modica spesa di 50 milioni di euro. Per carità: altre sono le vie per mettere in sicurezza il Latisanese da eventuali piene.

In questi ultimi anni, le Regioni sono decadute alquanto, per l’uso talora disinvolto del potere, tanto che da qualche parte si vorrebbe ridurre le materie su cui possono legiferare. Più di un potente si è segnalato per esercizi di abilità. E l’esempio è venuto da alto loco. Un referendum del 1993 aveva bocciato il finanziamento pubblico dei partiti col 90 per cento dei voti. Dopo due decenni, ci si assicura ora che detto finanziamento sparirà (tempo tre anni): ma praticamente solo nel nome e non nella sostanza, e si chiamerà contribuzione volontaria. Il costo della politica, o meglio dei politici, vale oggi oltre 23 milioni l’anno, come a dire 750 euro per ogni cittadino, neonati e centenari compresi. Ma c’è chi prevede che, a pieno regime, la cifra salirà, attraverso contributi pubblici e privati, a 40 milioni. Comunque, tranquilli: la legge relativa è ferma in Senato. A proposito di soldi, apprendiamo frattanto che il Demanio possiede stabili sfitti per 5 miliardi l’anno, mentre sborsa 750 milioni in canoni per altri stabili in affitto. Gli esempi trascinano. Nel suo piccolo, la Regione siciliana costa 160 milioni l’anno, quanto a retribuzioni ai 90 onorevoli deputati (si fanno chiamare così), ognuno dei quali pesa nella misura di un milione 770 mila euro, come a dire 14 mila 800 euro netti al mese. Siamo ricchi.

Torniamo a nord, esattamente in Campidoglio, dove ha sede il Comune di Roma. Non è un Comune qualunque, se annovera 37 mila dipendenti: una città. E’ un debito di 864 milioni. Niente paura: un decreto legge, detto Salva Roma, provvederà appunto a salvarla dal fallimento. Non è il primo aiutino concesso in premio ad altre città non virtuose.

Vien quasi da vergognarci noi furlan-giuliani o giulian-furlani per certe libertà concessesi da alcuni amministratori regionali. Sciocchezze: si son fatti rimborsare viaggi privati, pranzi e cene, financo sigarette e qualche mobile, una lavatrice, un forno a microonde, cavi di alimentazione, hard-disk, stilo, alimentari, portatili, iPad, pentole, calzature, super-alcolici, pizze, televisioni, lampade: in parte giustificato o già restituito a cortese richiesta. Poca roba, anche se fuori legge: leggerezze, appunto.
E i vecchi ideali? Idee come tante.
 
Prof. Gianfranco D'Aronco

"Presidente Onorario"
Comitato per l'autonomia
e il rilancio del Friuli
.........

L'articolo a firma del Prof. Gianfranco D'Aronco è stato pubblicato sul quotidiano IL MESSAGGERO VENETO  (Ud) – martedì 28 gennaio 2014 - pag. 38 e pag. 39.
 

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